top of page
  • Piergiorgio Pilli

Il Ciclone

Piergiorgio Pilli

120.000

Il 28 dicembre 1908 uno dei cataclismi più devastanti degli ultimi secoli, 7.2 Richter di magnitudo sconquassarono Reggio Calabria e Messina.

2.018

22:39, nono giorno di ottobre, 1963. Una piana limacciosa fu la nuova municipalità di Longarone

388

L’inquietudine delle faglie su cui il Bel Paese prospera sottrasse alle loro famiglie gli abitanti del Centro Italia tra il 2016 e il 2017

43

Ammiravo i bagliori violacei delle Dolomiti, quel giorno del 2018 in cui, lo ricordo bene, il viadotto sul Polcevera portò con sé nella propria rovinosa caduta la vita di più di quattro decine di persone.


Quattro eventi di grande impatto, quattro eventi che hanno raccolto la compassione e le preghiere di un Paese intero, quattro eventi che, ciascuno a modo suo, hanno impresso un ricordo e donato insegnamenti con la sofferenza della morte.

Da più di un anno siamo costretti a vivere sotto la minaccia del pericolo: la rapida evoluzione degli eventi pandemici, nelle sue costanti progressioni e regressioni, restituisce a noi che viviamo al suo interno una opprimente sensazione di staticità. In preda ad una società che fabbrica menzogne pur di non ammettere di non aver risposte, che offre fatue promesse, pur di non lavorare per offrire speranze, lasciamo che la vita scorra, nella pace terrorizzante che si sperimenta all’interno dell’occhio del ciclone, in quella che a tutti gli effetti è una catastrofe reiterata.

Ogni giorno è Amatrice, ogni ora è Genova. Dal 27 marzo a ritroso: 380, 457, 460, 460, 551, 386, 300. Non credo di dover continuare. Ma stupisco di come davanti a tutto questo esista non solo chi non ne viene toccato, ma specialmente chi permette che i 2994 decessi di sette giorni non condizionino la propria vita.

Ora, frenerei le mie dita sulla tastiera: la deriva paternalista è al momento quanto di più sbagliato potrei produrre, e per le circostanze, e per il luogo: al momento il pulpito è vuoto e le prediche sono sospese. Le domande, tuttavia, sono lecite e le risposte, si sa, sono gentil cortesia (permetterete una modica dose di scadente e obsoleta sdrammatizzazione).

E io chiedo, posto che i sentimenti e le emozioni sono un tratto essenziale e irrinunciabile della nostra esistenza, è forse il lutto della serenità perduta che ci spinge a vivere in una bolla di felicità, arcobaleni ed unicorni, negazionisti della realtà? Cos’è l’empatia? È forse soffrire insieme ad una persona, ad un paese, ad una famiglia, al momento della catastrofe e alleviare il dolore, in un “aiuto" contingente e istantaneo? Probabilmente è la definizione abituale, ma cosa succede quando il dolore è il medesimo, quotidiano, lamento di centinaia di famiglie? Dovremmo riadattare i nostri standard, dovremmo renderci conto che questa è un’emergenza: questo è il momento in cui le priorità si riordinano e l’obiettivo, unico, irrinunciabile, sostanziale e centrale è uscirne. L’empatia dovrebbe allora, a mio parere, assurgere al ruolo di propulsore, di carica per affrontare la dose di sacrificio quotidiano che il Padreterno ha usato la cortesia di assegnarci. L’empatia ci spinge ad agire per gli altri e con gli altri, uniti per un obiettivo, in una solidarietà di sostanza e non di hashtag, di parole forti e di illusioni. E chi può capire, ha il dovere morale di farlo.

Mi permetto di concludere, appropriandomi indebitamente di una citazione di de Andre’, comparsa tra i commenti di uno dei recenti caffè di Massimo Gramellini sul Corriere della Sera. A libera interpretazione del cordiale lettore, a libera sostituzione della parola “Stato".



"Prima pagina, venti notizie

Ventuno ingiustizie e lo Stato che fa

Si costerna, s'indigna, s'impegna

Poi getta la spugna con gran dignità”


60 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Scuola 2.0

bottom of page